L’Italia si sveglia molto diversa. Il suo volto politico si è trasformato in poche ore come mai negli ultimi decenni. Ancora non sappiamo se sia cambiato anche il suo destino come nazione in Europa, ma questo è il primo interrogativo, che parecchi altri ne porta con sé. In realtà da oggi muta il destino di tutti i protagonisti e comprimari di questo passaggio storico, nel quale per la prima volta un partito che non si riconobbe, oltre settant’anni fa, nel patto costituente della Repubblica conquista la maggioranza relativa dei voti e dei seggi.

Di conseguenza siamo davanti a una pagina bianca che dovrà essere riempita in fretta perché la recessione incombe e la crisi internazionale ci minaccia da molto vicino. Ma in primo luogo è opportuno domandarsi in cosa cambia il destino di Giorgia Meloni, la vera vincitrice delle elezioni. Ha vinto lei, non una coalizione frantumata dal voto, in cui i perdenti si chiamano Berlusconi Salvini.

Ora la giovane leader di una destra radicale interprete dell’unica opposizione al governo Draghi – ce n’erano altre implicite, per non dire ipocrite – è posta di fronte a una prova di maturità di cui dovrebbe essere ben consapevole. In altre parole: se l’asprezza di certe posizioni (il voto a favore di Orbán, la “pacchia finita” per l’Europa, eccetera) era un’astuzia elettorale per rastrellare consensi tra i leghisti e i seguaci di Italexit, ci si può sentire, per così dire, rassicurati. Se invece era l’anticipo di un programma iper-populista, c’è da preoccuparsi e non poco.

Peraltro sappiamo che il punto di partenza di Giorgia Meloni è un ostentato atlantismo che oggi si traduce nella linea pro-Ucraina e anti-Putin. Alla quale si è aggiunta la difesa di Taiwan dalle mire cinesi con argomenti che saranno di sicuro piaciuti al Dipartimento di Stato.

Al pari della Polonia, l’Italia di FdI si presenta come molto amica dell’America e al contempo assai fredda verso l’Unione. Tuttavia l’Italia non è la Polonia, bensì un paese fondatore dell’Europa politica: non c’è bisogno di ricordare quanto siano differenti la storia, il peso, la forza economica. È abbastanza logico che questo atlantismo, utile per ottenere quanto meno la non ostilità di Washington, sia condizione necessaria ma non sufficiente per governare.

Vero è che un reportage del Wall Street Journal ha appena descritto la leader di FdI come una politica conservatrice non diversa da altri che hanno calcato la scena in Europa e conclude: “lei non è Marine Le Pen“. E non è nemmeno, verrebbe da aggiungere, Margaret Thatcher. Proprio per questo l’altra faccia della medaglia, ossia il rapporto con l’Unione, ma soprattutto con Parigi e Berlino, merita qualche chiarimento.

Sull’Ucraina e la Russia Giorgia Meloni appare in sintonia con Mario Draghi, il premier a cui ha sempre negato i voti in Parlamento pur mantenendo un rapporto di correttezza istituzionale. Ma sull’Unione c’è una distanza evidente. Tanto è vero che il premier uscente ha voluto ricordare giorni fa che le nostre relazioni importanti non sono con Orbán, bensì con Macron e Scholz.

È in grado l’aspirante presidente del Consiglio, prima donna nella storia italiana, di compiere questo passaggio senza disperdere l’eredità di Draghi? È capace di accettare i consigli di quest’ultimo perché ne riconosce il prestigio, ammettendo che è nell’interesse del nuovo governo utilizzarne la credibilità a tutto vantaggio di una classe dirigente che ha tutto ancora da dimostrare?

Questo nell’ipotesi che la maggioranza di destra, in cui Meloni è egemone mentre Salvini e Berlusconi sono ridotti a comprimari, sia attrezzata per uscire dal porto senza naufragare contro la diga foranea. In fondo tutto si tiene. Le ambiguità della destra in politica estera sono innegabili. E per una Meloni filo-occidentale ci sono le magliette con la faccia di Putin indossate da Salvini, nonché le amicizie pericolose di Berlusconi.

Sulla carta la premier in pectore ha i voti e i seggi e con essi si presenterà a Mattarella. Ma la strada per lei è lunga e tortuosa. Dovrà mantenere il credito che l’Italia di Draghi le ha procurato e per farlo non basteranno gli slogan.